giovedì 30 giugno 2011

Giulio Romano a cura di Lorenzo Bonoldi

Due mesetti fà mi è stato regalato questo piccolo volume monografico su Giulio Pippi detto Giulio Romano. Se Shakespeare nel suo Racconto d'Inverno lo descrive come : "That rare Italian master,Julio Romano" e se aggiungiamo che, è l'unico artista italiano ad essere citato in un'opera del bardo di Stratford-upon-Avon possiamo comprendere la fama raggiunta da questo talento artistico. Ad essere maliziosi , si potrebbe pensare che William amasse tanto il nostro pittore/architetto per i suoi sedici Modi, invenzioni grafiche che mostrano altrettante diverse posizioni sessuali che tanta fama ebbero dal Rinascimento in poi fino ad andare  per lo più perduti ad opera della "sacrosanta morale".Comunque la notorietà  dell'allievo di Raffaello è legata indissolubilmente alle sue opere in Mantova commissionate dalla  famiglia Gonzaga quali Palazzo Te ed i suoi affreschi ( Sala di Amore e Psiche, Sala dei Giganti).
Così lo descrive il poliedrico Giorgio Vasari :"Quando fra il piú de gli uomini si veggono spiriti ingegnosi, che siano affabili e giocondi, con bella gravità in tutta la conversazione loro, e che stupendi e mirabili siano nell'arti che procedono da l'intelletto, si può veramente dire che siano grazie ch'a pochi il ciel largo destina; e possono costoro sopra gli altri andare altieri per la felicità delle parti, di che io ragiono. Percioché tanto può la cortesia de' servigi negli uomini, quanto nelle opere la dottrina delle arti loro. Di queste parti fu talmente dotato dalla natura Giulio Romano, che veramente si poté chiamare erede del graziosissimo Raffaello sí ne' costumi, quanto nella bellezza delle figure nell'arte della pittura; come dimostrano ancora le maravigliose fabbriche fatte da lui e per Roma e per Mantova, le quali non abitazioni di uomini, ma case degli dèi per esempio fatte degli uomini ci appariscono. Né tacer voglio la invenzione della storia di costui nella quale ha mostro d'essere stato raro, e che nessuno l'ab|bia paragonato. E ben posso io sicuramente dire che in questo volume non sia egli secondo a nessuno. Veggonsi i miracoli ne' colori da lui operati, la vaghezza de i quali spira una grazia ferma di bontà e carca di sapienzia ne' suoi scuri e lumi, che talora alienati e vivi si mostrano. Né con piú grazia mai geometra toccò compasso di lui. Tal che se Apelle e Vitruvio fossero vivi nel cospetto degli artefici, si terrebbono vinti dalla maniera di lui che fu sempre anticamente moderna, e modernamente antica. Per il che ben doveva Mantova piagnere, quando la morte gli chiuse gli occhi, i quali furono sempre vaghi di beneficarla, salvandola da le inondazioni dell'acque e magnificandola ne i tanti edifizi, che non piú Mantova, ma nuova Roma si può dire, bontà dello spirito e del valore dello ingegno suo maraviglioso. Il quale di modi nuovi, che abbino quella forma, che leggiadramente si conoschino nella bellezza de gli artefici nostri, piú d'ogni altro valse per arte e per natura.Fu Giulio Romano discepolo del grazioso Raffaello da Urbino, e per la natura di lui mirabile et ingegnosa, meritò piú de gli altri essere amato da Raffaello, che ne tenne gran conto, come quello che di disegno, d'invenzione e di colorito tutti i suoi discepoli avanzò di gran lunga."

Bando alle ciancie.... per descrivere un artista le parole sono vane , le immagini sono tutto.

 Giulio Romano

Banchetto di Amore e Psiche

Sala dei Giganti

Giove seduce Olimpiade

mercoledì 29 giugno 2011

Colazione da Tiffany di Truman Capote

Guardare prima il film per poi leggere in un secondo tempo il libro, sicuramente riserva tante sorprese. Sono due "entità" separate. Possiamo dire che abbiamo due storie diverse ed  il bello, è che , anche se divergenti, sono, al loro modo, entrambe affascinanti. Truman Capote non fu del tutto felice quando alla Merilyn Monroe preferirono la Hepburn per il ruolo da protagonista ma, credo che lo fu ancora meno quando stravolsero il suo romanzo, cancellando alcuni personaggi, mitigando il linguaggio ed alcune tendenze sessuali e cambiando del tutto il finale. Comunque , ripeto, i risultati sono entrambi soddisfacenti, almeno per me. Una frizzante , elegante e romantica  storia d'amore il film, con una magnifica colonna sonora di Henry Mancini , entrata nell'immaginario collettivo ( almeno nel mio) ed un racconto "newyorkese" fuori dalle righe  ed ironico  ma senza lieto fine il libro.





lunedì 27 giugno 2011

Libri di Hermann Hesse


Tutti i libri del mondo
non ti danno la felicità,
però in segreto
 ti rinviano a te stesso.

 Lì c'è tutto ciò di cui hai bisogno,
 sole stelle luna.
 Perché la luce che cercavi
 vive dentro di te.

 La saggezza che hai cercato
 a lungo in biblioteca
 ora brilla in ogni foglio,
 perché adesso è tua.

domenica 26 giugno 2011

I gioielli indiscreti di Denis Diderot

Primo romanzo di Diderot, scritto in soli quindici giorni.Tanta velocità di esecuzione può essere spiegata solo da una grande ispirazione.E dato l'argomento , l'ipotesi mi sembra plausibile.
Immaginate che un anello magico "costringa" quella parte del corpo femminile , segreta e nascosta, che le donne concedono "solamente" all'amante fortunato o al legittimo sposo, a parlare, tracciando il proprio "curriculum vitae" non nel segreto dell'alcova, ma in pubblico.Durante la lettura, le situazioni divertenti ed imbarazzanti non mancano di certo.Pubblicato in forma anonima nel 1748, l'opera del nostro caro illuminista non è facilmente etichettabile solo ad opera libertina. Tra il serio ed il faceto, nella trama possiamo intravedere un confronto tra la dottrina di Cartesio e quella di Newton ed una descrizione della novità musicale di Rameau rispetto a quella di Lulli."Les bijoux indiscrets" può essere letto come romanzo erotico,opera filosofica,romanzo misogino, favola...ognuno può scegliere il suo piano di lettura o più di uno.

sabato 25 giugno 2011

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda

Il commissario Francesco Ingravallo che tutti oramai chiamavano don Ciccio è incaricato delle indagini su due delitti- un furto ed un omicidio-  avvenuti nel mese di marzo 1927 presso il palazzo residenziale di via Merulana 219 a Roma , "il palazzo d’oro o dei pescicani". Fin qui tutto bene , sembrerebbe un classico giallo , forse il primo giallo italiano del secondo dopoguerra. Ma non è cosi' semplice. Se si lascia da parte il "genere", questo è un libro "complicato", difficile da metabolizzare e con innumerevoli piani di lettura. Il linguaggio utilizzato -un misto di italiano , dialetto romano ( omaggio al Belli) lingue straniere e neologismi- insieme ad una sintassi esageratamente ricca e all'abbondanza dei personaggi, spesso di origini differenti,  hanno "stremato ed affaticato" la mia lettura.Le parole vengono deliberatamente deformate seguendo associazioni di pensiero del tutto irrazionali. Il più delle volte le frasi sono lunghe, contorte ricche di aggettivi. La trama passa da un luogo all'altro tra innumerevoli personaggi perdendosi spesso in affascinanti elucubrazioni mentali del nostro don Ciccio. Sicuramente e volutamente 'un libro fuori dagli schemi della narrazione classica, un originale "esperimento di ingegnerizzazione narrativa e lessicale che  costringono il lettore ad essere sempre all'erta e sul chi va la' durante la lettura. A detta di Pier Paolo Pasolini , "un testo che sembrerebbe  prestarsi per un critico stilistico a orge d'analisi, da perdercisi come un topo nel formaggio". A titolo d'esempio dello stile gaddiano,  riporto dal testo la descrizione fantasmagorica di Zamira Pàcori uno degli innumerevoli personaggi del pasticciaccio.

"La di lei attività era ufficialmente quella di rammendatrice e rimagliatrice, carzonara, tintora, in qualche caso merciara, irngirica de guarì la sciatica per segreto d'erbe, indovina chiromante e cartomante patentata con spaccio di vini e liquori alii Du Santi, e maga orientale con diploma di prima classe: al laboratorio-bettola dove i carrettieri dell'Appia sostassero per una fojetta, appunto ai Due Santi. Era consultata nel ramo esorcismi, aperture o rotture d'incantagione, sbratto del malocchio di dosso ai lattanti col cércine, ai bambini scemi, scongiuri preventivi in genere: e anche in materia de lavatura de la testa da fa annà via li pidocchi, e quando je se fermava er mese a quarche regazza, o per nervosità o per altro sturbo, che ce ne so tanti, se sa. Immunologista di gran pratica e di rara competenza, dopo la liberazione d'Italia dall'incùbo dell'idra bolscevica a opera der Gran Balcone del Santo Sepolcro (28 ottobre 1922), il cracking della jettatura sive jella, di cui padroneggiava l'infinita casistica, di più in più costituì l'argomento principe de' ricorsPalla di lei arte. Non di tutti, però. Era esperita, sic et simpliciter, come da dono di natura, era autrice di decozioni propiziatorie e anche revulsive, al caso, e di quasi tutti i filtri e le polverine d'amore d'ambo i segni, cioè positivo e negativo. Faceva abortire le canine di razza, poerine, ingravidate da un bastardo randagio. Sapeva inculcare, dietro onesto compenso, un quanto cioè un tanto d'energia cinetica a' dubbiosi, a' malsicuri: confortarli al Jjragnaa, corroborarli all'azione. Con dieci lire si acquistava di sua medicina la facoltà di volere. Con altre dieci quella di potere. Dekirkegaardizzava farabuttelli di provincia incanalandoli a « lavorare » in città, detta l'Urbe, dopo avelli deterso l'anima dalle ultime perplessità: o dagli ultimi scrupoli. Instradava gli audaci, mostrando loro che le deboli creature del sesso non attendevano di meglio, a' quegli anni, se. non d'appoggiarsi a un qualcuno, d'attaccarsi a un qualche cosa, che fosse buono a divider seco un immemore orgasmo, la dolce pena del vivere: li catechizzava alla protezione della giovane, in concorrenza con l'omonima associazione. E i catecùmeni l'avevano a maestra, pur titolandola da una bevuta all'altra di sudicia, quando si credevano la non udisse lei, beninteso, e di ciabatta teista e bbefana: data l'avventatezza del secolo, e la loro personale sguaiataggine: e magari di maiala, anche, la titolavano, una Zamira Pàcori! e di vecchia ruffiana, bah, una sarta come lei ! una maga orientale con diploma di prima classe ! Bella gratitudine. E aveveno er grugno pure de dì che li Du Santi... ereno... un par de « nun zo se me spiego », accompagnando l'asserto con una manucaptazione-prolazione ivvereconda del paro stesso, per quanto involtato nel « cavallo » : invereconda, oh sì, ma non infrequente, ;illora, nell'uso del popolo. Calunnie. Bocche sporche. Teppa de campagna, che la notte va a rubbà li polli".

Per la cronaca , il testo è stato portato sul grande schermo nel 1959  dal regista Pietro Germi  con il film : "Un maledetto imbroglio" e sul piccolo schermo  nel 1983 con una serie televisiva  in cui Ingravallo era interpretato da Flavio Bucci


giovedì 23 giugno 2011

Maestro Domenico di Narciso Pelosini

"Maestro Domenico era una buona pasta di campagnuolo senza grilli, né frasche; con poche idee ma precise: buon cristiano e galantuomo di stampa antica". Suddito fedele di sua altezza il Granduca di Toscana e fedele alla Chiesa Santa e Cattolica di Roma, i suoi giorni trascorrono tranquilli e sicuri.Questo falegname solerte ed economo, questo puntiglioso e rispettoso maestro di scuola, sa anche godersi, a modo suo, la vita, contento.Al cader d'ogni giorno, ha la sua pausa con una buona pipata di tabacco.Al cader di ogni anno, per un'intera giornata, se ne va " a diporto sul monte pisano": parte al mattino, provvisto di pane companatico e vino, e torna a casa la sera, "cantando le ottave del Tasso". In una di queste scampagnate succede il fatto strano. Si addormenta e per motivi ignoti si risveglia dopo alcuni anni quando oramai l'unificazione d'Italia è cosa  fatta. Per il povero Maestro Domenico le sorprese dovute al cambiamento di "regime" saranno tantissime ed alla lunga insopportabili. L'autore , ridendo e scherzando, si dimostra uno spietato critico dell'unificazione sabauda e mostra un notevole coraggio nel pubblicare l'opera , dato che ci troviamo nel 1871 , ad un anno dalla presa di Porta Pia.

mercoledì 22 giugno 2011

Storia d'Italia a fumetti di Enzo Biagi



Se amo la Storia devo ringraziare anche  questi tre libri che mi furono regalati tanto.. tanto..tanto tempo fa. Ne è passata di acqua sotto i ponti ma la loro lettura e rilettura è indelebile. Mi sembra quasi di ricordare tutte le immagini ed i testi . Ogni qualvolta me li trovavo davanti li dovevo sfogliare. Comunque, a parte questa sviolina sulle mie trascorse letture adolescenziali , per chi ne volesse sapere di più Wikipedia ci dà una mano : Storia d'italia a Fumetti

lunedì 20 giugno 2011

I duellanti di Joseph Conrad

«Ho cercato di infondergli un po' dello spirito dell'epoca. Fra i miei antenati, ho avuto due ufficiali di Napoleone: un mio prozio materno e il nonno paterno. Si tratta dunque quasi di un affare di famiglia»: così scriveva Joseph Conrad ad un amico a proposito di questo lungo racconto, raccolto insieme ad altri cinque nel 1908 sotto il titolo di A Set of Six (Un gruppo di sei); 'un racconto militare' - come recita il sottotitolo - che prese spunto da una serie di conversazioni che lo scrittore ebbe a Montpellier con un ufficiale di artiglieria. Se, come è stato osservato, si tratta del racconto forse meno conradiano fra quelli del grande scrittore, è pure vero che anche in quest'opera la grande arte di Conrad si svela in tutta la sua potenza, e proprio nel reiterarsi quasi imponderabile del conflitto che mette di fronte i due protagonisti della vicenda, l'aristocratico D'Hubert e l'impetuoso Feraud, nell'ambito del ben più vasto conflitto delle guerre napoleoniche. Si è giustamente sottolineato come il senso dell'onore sia al centro della vicenda; e tuttavia c'è un aspetto non meno importante, e forse preponderante, da richiamare, e cioè l'assoluta inconsistenza dei fatti da cui tutto trae origine, ma che non vale a scongiurare l'ineluttabilità della sorte che i due contendenti si trovano ad affrontare. Ed è forse questo l'aspetto più conradiano dell'intera narrazione. [dalla quarta di copertina]. 


P.S. : da non dimenticare il film del 1977 che Ridley Scott ha tratto dal racconto di Conrad

sabato 18 giugno 2011

Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro

"Io mi domando se vale la pena di girare tanto, quando poi quello che vediamo è sempre la stessa cosa, quello che vedemmo nell'infanzia. Io ho veduto come è fatto l'elefante; eppure quello che mi ricordo sempre sono le lucertole al sole d'estate, quando si incantano su una pietra che brucia, e qui sotto la bocca,sul collo biancastro, batte loro qualche cosa come una vena. Io ho traversato il mare e ho vedute tante cose; eppure mi ricordo precisamente soltanto l'orto che facevamo da ragazzi, presso il ruscello, e l'ombra che una piantina di cece appena nata faceva quando vi batteva il sole. Mai cipresso ha fatta tanto ombra come quella, nel mio ricordo."


"Quando sono lontano da un luogo, so che cosa vi avrei potuto fare; quando ci sto, non so più, e vorrei tornare là di dove sono partito. Io certe volte penso alle persone che ho incontrato nella mia vita. C'era una ragazza che forse mi avrebbe voluto bene, ma io non sapevo che cosa dirle. Che cosa credi che fosse questa ragazza? Io non mi ricordo più se fosse piccola e vorrei tornare indietro per vederla com'era. Quando siamo soli non sappiamo mai come sono le cose, e poi domani ce ne facciamo un'idea tutta diversa. Come era la casa? lo me la ricordo grande, e quando ci vado la trovo piccola. Anche mia moglie in casa mi sembra grande quando la vedo per la strada la trovo piccola. La strada dove giocavo? Quando sono in un posto dico che me ne voglio ricordare e cerco di mettere  nella memoria come stanno le cose. Poi tutto finisce nel ricordo. Mi sembra di aver sempre sognato altre volte mi domando se sono proprio io che vivo, che ieri ero in un posto e oggi in un altro. Certe mattine, quando ho dormito poco, mi sembra di essermi lasciato a casa. Non vi succede anche a voi, intanto uno cammina, fa qualche cosa, e magari non sa è sveglio o se è morto." 

giovedì 16 giugno 2011

'A livella di Antonio De Curtis

                                                                  

 Ogn'anno,il due novembre,c'é l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn'anno,puntualmente,in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado,e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.

St'anno m'é capitato 'navventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo,e che paura!,
ma po' facette un'anema e curaggio.

'O fatto è chisto,statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d'à chiusura:
io,tomo tomo,stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.

"Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l'11 maggio del'31"

'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele,cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore
nce stava 'n 'ata tomba piccerella,
abbandunata,senza manco un fiore;
pe' segno,sulamente 'na crucella.

E ncoppa 'a croce appena se liggeva:
"Esposito Gennaro - netturbino":
guardannola,che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pur all'atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero,
muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.

Tutto a 'nu tratto,che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje:stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato...dormo,o è fantasia?

Ate che fantasia;era 'o Marchese:
c'o' tubbo,'a caramella e c'o' pastrano;
chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu 'nascopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro...
'omuorto puveriello...'o scupatore.
'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se ritirano a chest'ora?

Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo,
quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e tomo tomo..calmo calmo,
dicette a don Gennaro:"Giovanotto!

Da Voi vorrei saper,vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir,per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va,si,rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava,si,inumata;
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo,quindi,che cerchiate un fosso
tra i vostri pari,tra la vostra gente"

"Signor Marchese,nun è colpa mia,
i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,
i' che putevo fa' si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse
e proprio mo,obbj'...'nd'a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".

"E cosa aspetti,oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!"

"Famme vedé..-piglia sta violenza...
'A verità,Marché,mme so' scucciato
'e te senti;e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...

Ma chi te cride d'essere...nu ddio?
Ccà dinto,'o vvuo capi,ca simmo eguale?...
...Muorto si'tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".

"Lurido porco!...Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?".

"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella
che staje malato ancora e' fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.

'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,
suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"


mercoledì 15 giugno 2011

Il messaggio iniziatico delle cattedrali - Christian Jacq, Judith Rosa



“Le cattedrali sono state costruite su richiesta della Chiesa o dei governanti, ma non sono state costruite per loro. Edificare tali monumenti non poteva essere che l’opera di un insieme di costruttori che trovavano le radici nella più lontana antichità e che conservavano i segreti del mestiere. Raggruppati in corporazioni custodivano gelosemente i loro segreti affinché la conoscenza fosse trasmessa solo a coloro che ne erano degni; nelle logge dei costruttori, in effetti la pratica del tratto riguardava la mano e il cuore. Diventava Maestro d’Opera solo colui che era stato Apprendista e Compagno e aveva fedelmente servito il Tratto. Le cattedrali sono dunque dei libri insieme aperti e chiusi come si vede in numerose rappresentazioni: il libro aperto è quello accessibile a tutti, il libro chiuso è quello che bisogna darsi la pena di decifrare, quello in cui bisogna penetrare per compenetrarlo dall’interno. Attraverso il simbolismo le cattedrali fanno comunicare i mondi” Philippe Luino.









martedì 14 giugno 2011

La creazzione der monno (sonetto 165) di Gioachino Belli


L'anno che Gesucristo impastò er monno,
Ché pe impastallo già c'era la pasta,
Verde lo vorze fà, grosso e ritonno,
All'uso d'un cocommero de tasta.

Fece un zole, una luna e un mappamonno,
Ma de le stelle poi dì una catasta:
Su ucelli, bestie immezzo, e pesci in fonno:
Piantò le piante, e doppo disse: "Abbasta".

Me scordavo de dì che creò l'omo,
E coll'omo la donna, Adamo e Eva;
E je proibbì de nun toccaje un pomo.

Ma appena che a maggnà l'ebbe viduti,
Strillò per dio con quanta voce aveva:
"Ommini da vienì, sete futtuti"



lunedì 13 giugno 2011

A spasso con Mr. Albert - in giro per l'America con il cervello di Einstein - di Michael Paterniti

In giro per gli USA con il patologo che nel '55 asportò il cervello di Albert Einstein: un viaggio per osservare il mondo con occhi diversi. la mattina del 18 aprile 1955, poche ore dopo la morte di Einstein, all’ospedale di Princeton “arrivò il patologo capo, il dottor Thomas Stoltz Harvey, all’epoca un prestante quarantaduenne vagamente somigliante a Montgomery Clift, con una moglie, due figli e un brillante futuro davanti”.

Ora provate a mettervi nei panni del dottor Harvey: siete preparati a una giornata piuttosto routinaria e di colpo vi trovate costretto a sostituire un collega per un’autopsia. Niente di sorprendente, certo, ma solo fino a quando non scoprite che il cadavere a cui siete di fronte non è certo quello di un uomo qualsiasi. Steso sul lettino di fronte a voi c’è il corpo solitario e freddo di Albert Einstein.

“Harvey si sentì in soggezione quando si trovò faccia a faccia con il celebre scienziato che se ne giaceva tutto solo.” Accertata la morte causata da un aneurisma che era scoppiato “(…) dopo aver messo il fegato in un recipiente, Harvey prese una decisione. Chi può dire se fosse ispirata da avidità o da timore reverenziale, da dovere professionale o da leggerezza, da disinteresse o da meschinità? Chi può dire quale reazione chimica di verifica in un individuo che si confronta con lo splendore accecante di un grande, sapendo che non potrà mai possedere neanche un briciolo del suo genio?”

È un fatto storico che Harvey abbia rimosso la calotta cranica di Einstein, reciso i vasi sanguigni, i nervi, la spina dorsale ed estratto, alla fine, il cervello del più celebre (e forse grande) scienziato del ‘900. Nelle ore successive si scatena il finimondo: il gesto di Harvey non era stato previsto né organizzato dalla comunità scientifica, ma il patologo prende ancora una volta tutti in controtempo, indicendo una conferenza stampa in cui annuncia che il cervello di Einstein sarà analizzato a fini scientifici, per cercare di comprendere se esista uno spiegazione fisiologica alla stupefacente intelligenza dello scienziato.

Fin qui gli eventi di quel lontano ’55, da cui prende l’avvio di A spasso con Mr. Albert – in giro per l’America con il cervello di Einstein, di Michael Paterniti, giornalista sulla quarantina che collabora con 'The New York Times' , 'Times Magazine', 'Details' e 'Esquire' e che nel 1998 si è aggiudicato il National Magazine Award.

Parrebbe, tutto sommato uno spunto esile e quasi pruriginoso: nel corso degli anni sono molti i cervelli o le parti del corpo asportate a personaggi illustri per comprenderne le caratteristiche o individuarne le peculiarità ma anche per culto feticista: ne sono un esempio i cuori dei poeti inglesi Shelley, Byron, Hardy; i cervelli di John Dillinger e di J.F. Kennedy; le teste Haydn e di Pancho Villa. Per non dire del pene di Napoleone, delle mummie di Lenin, Mao e Ho Chi-minh, e delle migliaia e migliaia di brandelli di santi che sono racchiusi nelle nostre chiese.

Com’era prevedibile, anche per il cervello di Einstein nessuno ha mai raggiunto conclusioni soddisfacenti. Il possessore illegittimo del suo cervello –mai perseguito a termini di legge, soprattutto per la mancanza di una legislazione al riguardo – non ha avuto una vita semplice, né dal punto di vista professionale né personale.

Licenziato per il furto del cervello, più volte eclissatosi, è ricomparso a decenni di distanza sulla scena pubblica, quasi senza pubblicazioni di rilievo, sempre dichiarando che le analisi sarebbero terminate di lì a un poco. Salvo scomparire ancora, fin quando – 84 enne – decide di consegnare il cervello di Einstein a Elliot Krauss, suo successero al Princeton Hospital. Per farlo intraprende un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, con uno schaffeur d’eccezione: Michael Paterniti. E non per caso: il giornalista lo aveva cercato per mesi per approfondire la sua conoscenza dello strano destino del cervello di Einstein, trovando il patologo e riperdendolo un paio di volte. Fin quando Harvey accetta di parlargli e gli propone di accompagnare lui e il cervello, ridotto a una specie di spezzatino e tenuto sotto formaldeide in un contenitore poco meno che casuale, in un lungo giro scientifico, in cui avrebbe mostrato il cervello di Einstein a illustri studiosi.

A spasso con Mr. Albert è un vero e proprio romanzo che riecheggia On the road, con il quale ha in comune una certa atmosfera da gioventù bruciata, una nota di insensatezza e di profonda insoddisfazione di sé, come quella che spinge Paterniti a intraprendere il lungo viaggio abbandonando la compagna Sara, senza la certezza di ritrovarla alla fine della peregrinazione.

La narrazione procede veloce e leggera, intrecciando elementi di biografia di Einstein, racconti di viaggio e di personaggi, riflessioni sulla realtà americana di oggi. Ne risulta un’opera interessante e surreale, nella quale la realtà “normale” viene distorta non appena si ricorda che le persone che la vivono hanno a disposizione non solo i loro cervelli per interpretare il mondo, ma anche quello di Einstein. Viaggiare in compagnia del cervello di Einstein, insomma, dona all’autore un punto di vista privilegiato e originale della realtà americana e delle sue contraddizioni. E le contraddizioni del furto di Harvey? “ «Quel che ha fatto Tom Harvey è stato cercare di conservare il più grande cervello del secolo, » dice Krauss. «Fra trent’anni è possibile che il cervello di Einstein non sia più una semplice curiosità, ma che abbiamo i mezzi per utilizzarlo e capirne i segreti. Penso che Harvey si sia reso conto che il suo compito era finito. E così…»”.

domenica 12 giugno 2011

Lettera sulla Felicità di Epicuro




Meneceo,


   (122) Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro.

   Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire.

   Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla.

   (123) Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.

   Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità.

   Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha.

   Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità.

   (124) Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.

   Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L'esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità.

   (125) Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire.

   La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.

   (126) Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.

   Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte.

   Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mal nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte.

   (127) Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento.

   Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.

   Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.

   (128) Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia.

   Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.

   (129) Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore.

   E' bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo.

   Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire.

   (130) Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene.

   Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile.

   (131) I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.

   Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte.

   Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno.

   (132) Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza.

   Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.

   (133) Chi suscita più ammirazione di colui che ha un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare ?

   Questo genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.

   (134) Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità.

   La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali.

   (135) Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.

   Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini.

   Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.




           Il testo su cui è stata condotta
           la presente traduzione si fonda
           sostanzialmente sull'edizione di
           G. Arrighetti, Epicuro, Opere,
           Torino, 1973.

                        

                             

venerdì 10 giugno 2011

Nessun uomo è un isola di John Donne

 


Nessun uomo è un isola,
in se stesso racchiuso;
ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte del tutto;
se il mare si porta via una zolla di terra,
l'Europa ne è diminuita,
come se sparisse un promontorio,
la casa assolata di un amico,
o la tua stessa;
la morte di ogni uomo mi diminuisce,
perchè sono parte dell'umanità;
per questo, non chiedere mai
per chi suona la campana;
essa suona per te.


No man is an Iland,
intire of it selfe;
every man is a peece of the Continent,
a part of the maine;
if a Clod bee washed away by the Sea,
Europe is the lesse,
as well as if a Promontorie were,
as well as if a Mannor of thy friends
or of thine owne were;
any mans death diminishes me,
because I am involved in Mankinde;
And therefore never send to know
for whom the bell tolls;
It tolls for thee.


John Donne, "Devotions upon Emergent Occasions" (1623)


martedì 7 giugno 2011

Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (una rilettura)



Con mia grande meraviglia, per la prima volta in vita mia, ho deciso di ripetere la lettura di un testo già letto. Il Gattopardo è stata una lettura liceale. Ma non vorrei ridurla solo a questo. Decisamente, almeno per me, è stata soprattutto una lettura "formativa". Un testo relativamente breve ma denso di vicende e pensieri che mi sono affini. Inoltre, ogniqualvolta ripenso a questo libro, "rivivo"  sempre e dico sempre i suoni e gli odori di una lontana vigilia di Natale serena e spensierata avvolta dal lenzuolo  dell'odore intenso e piacevole di legna bruciata proveniente dai camini accesi di un antico paese ed delle note ripetute della canzone natalizia :"Tu scendi dalle stelle" .
Per ora mi limiterò ad inserire uno stralcio del film che Luchino Visconti trasse dal libro....Film memorabile !
Nello specifico si tratta del discorso che avviene tra il principe di Salina (per chi non  lo sapesse interpretato da uno strepitoso Burt Lancaster) e il piemontese Chevalley.